Negli ultimi dieci anni si sono moltiplicati i fondi italiani di venture capital, pubblici e privati, per finanziare programmi di sviluppo di startup; l’offerta di capitali è dunque ampia e diversificata.
A mancare sono invece startup che presentino potenzialità di sviluppo significative; in effetti, a eccezione di pochi casi, sono molto rare le opportunità di investimento in startup capaci di fornire rendimenti in linea con gli IRR attesi dagli investitori, soprattutto da quelli privati.
In merito ai temi più interessanti per gli investimenti di venture capital, credo che tutto ciò che attiene al verticale “green”, legato in particolare alla transizione energetica, possa attrarre un importante ammontare di capitali nei prossimi anni; si confermeranno Fintech, Life Science, Software & Digital Services e anche Cyber Security; per il Delivery, i cambiamenti normativi in merito al trattamento dei rider potrebbe comunque rappresentare un elemento di incertezza e di penalizzazione, seppur in un contesto di forte crescita del giro d’affari, legato anche ai cambiamenti imposti dalle restrizioni anti Covid.
Il principale fattore di successo alla base di una startup è rappresentato dal team e dalla velocità di execution. Spesso alcune startup sono piuttosto simili per quanto attiene al servizio offerto e al mercato di riferimento, ma una va benissimo e le altre falliscono; la differenza la fa la capacità del management team di comprendere i bisogni del mercato offrendo soluzioni coerenti.
A determinare il fallimento di una startup, oltre a quanto ricavabile dalle indicazioni precedenti, sono spesso molteplici motivi, quali la non chiarezza del business model, un mercato di riferimento non ampio né in crescita, la lentezza nell’avvio dei ricavi su livelli significativi.
Più in generale, ritengo che uno dei motivi più frequenti sia la sottovalutazione del fattore tempo da parte dei founders e del management di una startup, i quali spesso definiscono stime troppo ottimistiche sull’avvio dei ricavi e sul loro importo, e sui costi/uscite; l’effetto di ciò è che vengono richiesti apporti di equity insufficienti ad accompagnare la startup fino al raggiungimento dell’autonomia finanziaria e, pertanto, non riuscendo a finanziare un ulteriore round, la startup è destinata a fallire.
Dalla mia esperienza uno dei segnali, a cui faccio sempre riferimento per comprendere la “qualità” del management team di una startup, è rappresentato da come viene considerato e gestito il fattore tempo; quando uno startupper mi parla di obiettivi di crescita di utenti e di ricavi o di quanto fatto in passato, senza contestualizzare adeguatamente la dimensione temporale, esprimo rapidamente un parere negativo senza alcun interesse a seguire detta startup come consulente.
Gli investitori ricevono centinaia di dossier ogni anno e dunque, naturalmente, sono spinti a effettuare un’attività di selezione.
Quello che spesso non viene adeguatamente considerato è che anche gli startupper devono effettuare una rigida selezione degli investitori a cui rivolgersi.
Il fund raising è un’attività energivora, altamente time consuming e, quando dura troppi mesi, finisce per distogliere i founders dalla gestione del core business della startup. Il problema è che non di rado alcuni operatori di venture capital, spesso operanti in realtà pubbliche, provengono da ambiti differenti e, iniziando a operare nel venture capital in modo improvvisato, adottano logiche non compatibili con le esigenze di una startup, in primis per quanto attiene ai tempi di analisi di un deal e delle trattative corrispondenti. Nessun ambito è migliore o peggiore di un altro; semplicemente, il problema è che non è infrequente imbattersi in operatori di venture capital improvvisati, che fino a qualche mese prima si sono occupati di tutt’altro.
Un elemento da cui si nota subito l’esperienza con le startup, da parte di un operatore finanziario, è la considerazione del fattore tempo: se un investitore impiega mesi solo per organizzare i primi incontri e per le prime analisi, e poi propone contratti simili a quelli della fusione tra FCA e PSA, nonostante si tratti di un investimento di poche centinaia di migliaia di euro in una startup costituita da pochi mesi o un anno, evidentemente non è l’interlocutore adatto.
In altri termini, gli startupper devono selezionare attentamente gli investitori da contattare, esaminandone le politiche di investimento e le operazioni già effettuate, accanto al contributo che possono offrire alle startup; in particolare, il supporto per il piano di sviluppo di una startup non può limitarsi solo al capitale ma deve comprendere anche attività di business development, rafforzamento del network ecc..
Infine, un’altra questione da considerare, a proposito degli investitori, è che non di rado il closing di un deal viene considerato esclusivamente il punto di arrivo della loro operatività, laddove si tratta semplicemente di un punto di partenza; è necessario, infatti, seguire la startup, monitorandone i risultati e definendo opportune e tempestive azioni correttive, se necessarie. In altri termini, una problematica, spesso lamentata dagli startupper venture backed, è lo scarso supporto da parte degli investitori.
L’equity crowdfunding si è sviluppato notevolmente negli ultimi anni, come confermano l’aumento sia delle piattaforme operative sia del numero di operazioni sia, infine, dei capitali raccolti.
Esso rappresenta uno strumento molto utile per finanziare i piani di sviluppo delle startup. Allo stesso tempo, però, è necessario che vengano apportati correttivi normativi per evitare che tale strumento, nato per favorire le startup, finisca per svantaggiarle.
Mi riferisco in particolare a ciò che accade in startup, in precedenza beneficiarie di una campagna di equity crowdfunding, che lanciano un nuovo round, generalmente con investitori istituzionali; ebbene, in siffatte ipotesi la necessità di rispettare i tempi standard per determinate azioni (recesso ecc.), finisce per penalizzare oltremodo la startup senza apportare reali benefici ai partecipanti della precedente campagna di crowdfunding, che generalmente hanno quote o azioni senza i classici diritti amministrativi.
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