Simone Maria: Sicuramente la pandemia e le sue conseguenze stanno mettendo a dura prova il nostro stato emozionale, sia nella vita privata che in quella professionale. Come essere umani abbiamo bisogno di certezze e mai come in questo periodo tutte quelle che avevamo sono cadute.
Il concetto di intelligenza emotiva è nato intorno agli anni ‘90 attraverso le ricerche e gli studi di due importanti psicologi statunitensi P.Salovey e J. D. Mayer, i quali per la prima volta fecero capire che come esseri umani eravamo capaci di distinguere, riconoscere, etichettare e gestire le nostre e altrui emozioni.
Negli anni il concetto di intelligenza emotiva ha subito diverse modifiche, sia nel concetto che nella sua applicazione.
Esistono ad oggi diversi modelli teorici, ma i più importanti sono due:
- il modello di intelligenza emotiva di P.Salovey e J. D. Mayer secondo i quali l'Intelligenza Emotiva è intesa come la capacità di percepire, integrare e regolare le emozioni per facilitare il pensiero e promuovere la crescita personale.
Questo modello include quattro diverse abilità che sono tra loro assolutamente correlate:
- il modello di intelligenza emotiva elaborato da D. Goleman, che comprende una serie di capacità e competenze che guidano l'individuo soprattutto nel campo della leadership. Comprende cinque abilità pratiche, che possono essere acquisite, sviluppate e migliorate al fine di raggiungere prestazioni lavorative e di leadership importanti, riconducibili a:
Simone Maria: Prima di tutto bisognerebbe definire cos’è lo smart working. Mi spiego meglio: prima dell’emergenza Covid-19 solo il 2% dei dipendenti lavorava da casa in Italia contro il 20,2% dell’Inghilterra, il 16,6% della Francia e il 18,6% della Germania.
Oggi è in atto il più grande esperimento di lavoro a distanza mai attuato nel nostro paese.
Sono 8,2 milioni i dipendenti che lavorano da casa con lo smart working, o “lavoro agile”, oppure con il telelavoro.
Nel primo caso si scelgono i giorni in cui non si va in ufficio, si sceglie liberamente dove lavorare, però si lavora per obiettivi, producendo risultati in un determinato periodo di tempo, con tecnologie che devono facilitare la collaborazione e, pertanto, devono garantire massima flessibilità e mobilità.
Le persone devono essere responsabilizzate e gestite per obiettivi attraverso un rapporto di fiducia che si crea sia tra colleghi che con i manager per agevolare produttività e benessere.
Nel secondo caso, il telelavoro, si lavora sempre da casa e connessi durante tutto l’orario d’ufficio.
Il datore di lavoro deve dotare il dipendente di computer e far verificare la compatibilità della connessione.
L’azienda quindi deve avere dei server abilitati per le connessioni esterne, ed è qui che nasce il problema, i dipendenti devono fare i conti con l’arretratezza tecnologica e una mentalità non aperta all’innovazione di tante imprese.
Quello che stiamo vivendo oggi, con la pandemia, è un approccio al lavoro completamente innovativo che le organizzazioni dovrebbero adottare per andare incontro alle esigenze che il mercato e il nostro stile di vita richiedono: flessibilità, produttività, mobilità, reattività, felicità, crescita.
Da remoto una delle skill più richiesta sarà l’intelligenza emotiva: il quoziente emotivo fotografa la nostra capacità di vivere insieme agli altri (anche da remoto) e di relazionarci positivamente con noi stessi, da leader.
Non dobbiamo dimenticare che il cambiamento avviene comunque e i nuovi compiti e le mansioni sul lavoro, stanno stimolando la domanda verso nuove competenze tecnologiche, come il pensiero analitico, l’apprendimento attivo e la progettazione tecnologica, e competenze “umane” come la creatività, l’originalità, l’iniziativa, il pensiero critico e la persuasione e negoziazione
Simone Maria: Sono d’accordo anch’io sul fatto che il mito del lavoratore modello, asettico, instancabile e iper-razionale sta finalmente facendo il conti con la realtà.
L’ingresso delle discipline neuro-comportamentali anche in ambiti apparentemente lontani, come l’economia o la gestione del lavoro, ha sdoganato quello che è sempre stato un dato di fatto: siamo esseri emotivi e la nostra componente emozionale non ci abbandona mai, nemmeno nelle occasioni in cui vorremmo sentirci il più possibile razionali e impersonali, come nell’abito lavorativo.
Per questo, nel corso degli anni, la capacità di leggere le emozioni si è ritagliata un posto d’onore tra le doti attribuite ai leader di successo, creando anche una serie di studi complementari su come allenarla e affinarla, come testimonia il professor Tarun Khanna con il suo paper Contextual Intelligence pubblicato nel 2014 sull’Harvard Business Review. In pratica si tratta di conoscere se stessi con franchezza per capire come si agirebbe di fronte alle varie situazioni e, naturalmente, anche come agirebbero gli altri, in modo da relazionarsi a loro nella maniera più proficua.
Si tratta di lavorare su una serie di passaggi: consapevolezza di sé, in pratica conoscere le proprie emozioni e come influenzano le azioni; gestione di sé, cioè la capacità di orientare le proprie emozioni in modo utile; consapevolezza sociale, che consiste nel comprendere gli altri e le dinamiche all’interno del loro contesto (in pratica: l’empatia) e infine la gestione delle relazioni, che vanno guidate in modo da risultare il più possibile serene, trasparenti ed efficaci.
Come deve agire oggi un’azienda che punta sull’intelligenza emotiva? Deve mettersi nei panni del dipendente!
Per esempio con orari di lavoro personalizzati, con l’assunzione di psicologi o di counselor professionisti nei team di risorse umane e con servizi di formazione sempre più mirati. Dopo tutto, siamo umani 24 ore al giorno, e non soltanto nel tempo libero.
Simone Maria: Indipendentemente dal tipo di modello adottato, la presenza di un elevato grado d'intelligenza emotiva dovrebbe apportare, teoricamente, effetti benefici in tutti gli aspetti della vita quotidiana dell'individuo.
Coloro che sono dotati di intelligenza emotiva dovrebbero:
Godere di un benessere psicologico maggiore. Chi presenta un buon livello di intelligenza emotiva, infatti, pare abbia una maggior probabilità di avere soddisfazioni dalla propria vita, di avere un elevato livello di autostima e un minor livello di insicurezza.
L'intelligenza emotiva secondo Goleman può essere misurata tramite l'Emotional Competency Inventory (ECI) e l'Emotional and Social Competency Inventory (ESCI), si tratta di strumenti elaborati dallo stesso Goleman e da Richard Eleftherios Boyatzis.
E’ definito uno dei più importanti test a livello mondiale per l’assessment dell’Intelligenza Emotiva, la valutazione avviene combinando quelle che potrebbero essere definite “abilità mentali” (ad esempio l’autoconsapevolezza) con aspetti di personalità, come l’indipendenza personale, l’autostima e lo stato d’animo. Ne deriva un “quoziente emotivo” che dà la misura della competenza della persona nel riconoscere e gestire le proprie emozioni e quelle degli altri.
E’ strutturato così:
A cosa serve:
Cosa valuta:
Simone Maria: “I grandi leader ci fanno muovere. Accendono la nostra passione e ci ispirano a dare il meglio di noi. Quando cerchiamo di spiegare perché essi siano così efficaci, parliamo di strategia, visione o idee potenti. Ma la realtà è molto più basica: le grandi leadership lavorano attraverso le emozioni” Così si apre il libro Primal leadership – Unleashing the power of Emotional Intelligence di Daniel Goleman.
Il primo passo che deve compiere un leader è quello di sviluppare la propria forza interna, quello sguardo lucido su noi stessi che evolve e si schiarisce mentre impariamo, cresciamo e sperimentiamo nuove strade rendendoci più adattabili, trasparenti e positivi verso l’esterno.
In secondo luogo, bisogna adoperarsi per costruire un cultura della compassione. Non nel senso di pietà verso qualcuno, ma di riconoscimento delle emozioni altrui. Un dettaglio che vale doppio se si lavora in team, fidandosi l’uno dell’altro.
Terzo, potenziare le relazioni attraverso una comunicazione aperta e continuativa che non si fermi di fronte alla differenza nei livelli di responsabilità all’interno di un’impresa. Una caratteristica che va a braccetto con la disponibilità a una formazione continua, magari attraverso l’esempio.
Infine, bisogna saper affiancare l’analisi quantitativa a quella qualitativa, soprattutto nel valutare le prestazioni della persona che ci sta di fronte al fine di dargli il giusto merito e veicolare la fiducia che si ripone nelle sue capacità.
L’arte della leadership basata sull’intelligenza emozionale si concretizza nel centrare gli obiettivi attraverso la qualità del lavoro degli altri. «L’arte della leadership – precisa Goleman – consiste nel portare e mantenere le persone nella fascia più alta dei livelli di performance, e questo succede quando le persone sono nel miglior stato di benessere personale. È uno stato ottimale che si chiama Flow, in cui la persona stessa rimane stupita dei risultati che ottiene, e definito attraverso ricerche sui professionisti più diversi, dalle ballerine ai giocatori di scacchi, dai top manager ai militari».
Per creare una situazione del genere bisogna stabilire chiare regole e obiettivi, ma lasciare una certa flessibilità sul modo di raggiungerli. D’altronde, come ricorda spesso Goleman, «i leader talentuosi emergono là dove cuore e testa, emozioni e pensiero, si incontrano».
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